Too big to fail. E’ troppo grosso per poter fallire. Così avevano giustificato il salvataggio dei colossi assicurativi americani dal fallimento durante la crisi del 2008. Avevano in pancia i fondi pensione di milioni di americani. Accettare che fallissero significava trascinare nella povertà tutti coloro che durante la loro vita lavorativa avevano pagato per assicurarsi vecchiaia e cure dignitose.
Lo stesso concetto avevamo noi tutti del ponte Morandi: è troppo importante per cadere. Eppure tutti sapevamo che doveva venir giù. Lo sapevamo almeno da quando erano stati fatti i dibattiti promossi dall’allora sindaco Marta Vincenzi e che avevano generato la nascita dei vari comitati contro la Gronda.
La Gronda, si era tentato di spiegare, serviva a sostituire il ponte Morandi, destinato alla demolizione. Questo doveva essere ed era il punto fermo.
Ma non era solo un problema della valle.
Il crollo del ponte Morandi è un gigantesco caso di rimozione collettiva, perché era meglio pensare che non avrebbe avuto fine, che non sarebbe crollato mai. E’ così importante, ognuno pensava. Come mai si potrebbe sostituire?
E invece quello che si rifiutava di pensare è accaduto.
Nessuna forza politica avrebbe mai messo fra i suoi punti l’abbattimento del ponte e la costruzione di una nuova opera, non importa se nella stessa sede o più a monte, non importa se dovesse chiamarsi Gronda o passante.
Non avrebbe avuto senso. Era contro il buon senso. Con un programma così chiunque avrebbe perso. Ma la ragione ci diceva che quel ponte andava demolito prima di. E poi i puntini di sospensione, di scaramanzia, perché nessuno avrebbe mai potuto evocare una tragedia che avrebbe avuto le dimensioni di una guerra e lo stesso impatto – e lo abbiamo purtroppo provato – che ha avuto la bomba alla stazione di Bologna o gli attentati al World Trade Center di New York.
Se possiamo e dobbiamo trarre una morale, un senso a quello che è accaduto, questo è che non ci sono più idoli, o cose o pensieri troppo grandi per crollare, cadere, fallire. Non possiamo permetterci il lusso di cullarci in illusioni.
Possiamo credere per una volta alla ragione e non al buon senso.
Possiamo prendere questa tragedia e costruire una nuova città.
Ora possiamo pensare un’unica metropolitana cittadina da Nervi a Voltri, con treni veloci, ogni dieci minuti e ancora più frequenti negli orari di punta.
Possiamo pensare alla metropolitana esistente e completare la U fino a Pontedecimo e Prato. Sarebbero tratte allo scoperto, più economiche e almeno in val Polcevera, correrebbero sui binari della ferrovia.
Possiamo pensare di costruire le nuove case degli sfollati nelle aree abbandonate delle ferrovie, i vecchi parchi merci a ridosso della collina di Belvedere e fra Certosa e Rivarolo.
Possiamo pensare di ottenere di dare il nostro otto per mille al Comune, in un fondo vincolato alla ricostruzione.
Possiamo pensare e fare tante cose.
Ma non possiamo rassegnarci. Bisogna invece crederci. A dispetto dei commenti e del famoso solito buon senso, che fa dire: intanto sai quanto ci metteranno, intanto sai quanto si metteranno in tasca. Eccetera eccetera.
Siamo stufi di buon senso, con quello non si costruiscono nuovi ponti.